Cyber casalinghe: una donna a casa con i figli davanti al portatile

Gli ultimi dati ISTAT mostrano segnali positivi: gli uomini occupati sono 14 milioni, le donne 10,2 milioni. Ma il tasso di occupazione femminile resta basso: 53,5% rispetto al 72% degli uomini. Questo divario colloca l’Italia tra gli ultimi Paesi europei, davanti solo a Grecia e Romania.

Non è nella disoccupazione che troviamo la vera criticità, dato che il numero di disoccupati è simile per uomini (822.000) e donne (798.000). Il problema è negli inattivi, dove la sproporzione di genere diventa evidente: 7,8 milioni di donne contro 4,4 milioni di uomini. Dentro questa categoria c’è un esercito silenzioso composto soprattutto da casalinghe (secondo alcune stime, circa 4 milioni), oltre che da studenti, benestanti, inabili al lavoro e persone scoraggiate.

Casalinghe uguale inattive?

Mia madre (era ed è) una casalinga. Sono convinto che se sapesse che il mondo della statistica la definisce “inattiva”, al pari di una benestante, si incazzerebbe (giustamente) un po’, o forse ci rimarrebbe solo male nello scoprire che tutti i suoi sforzi non valgono la qualifica di “attiva”.

Definire inattiva una casalinga può risultare fuorviante: spesso si tratta di una scelta economica precisa. Se il guadagno marginale derivato dalla sua emancipazione lavorativa è negativo—perché il costo dell’indipendenza (asili nido, babysitter, trasporti) supera lo stipendio netto percepito o si avvicina a quell’importo, senza dare un vantaggio significativo in termini retributivi—nessuna donna farà mai una scelta contraria ai propri interessi famigliari. Con salari bassi avremo sempre un grande numero di casalinghe, problema condiviso con molti altri Paesi UE.

Possiamo dire che il numero di casalinghe in Italia è direttamente correlato a questo, e non solo al patriarcato?

Sono NEET perché mi narrano così

Ho accidentalmente ascoltato alla Camera l’intervento della senatrice Tiziana Nisini sui dati ISTAT. Al di là delle posizioni politiche personali, condivido la sua riflessione sulle due visioni politiche dominanti riguardo al mercato del lavoro: una descrive i giovani inattivi (NEET) come pigri, “bamboccioni” o “choosy”, mentre l’altra prova a restituire fiducia e prospettiva.

Concordo nel dire che la prima è profondamente errata: i NEET sono spesso giovani drop-out scolastici, non pigri cronici. Dire che i NEET siano degli hikikomori non è giusto per gli uni e per gli altri: con questa narrativa abbiamo buttato nello stesso calderone persone difficilmente includibili in un progetto lavorativo nel breve termine e persone “fisiologicamente” disoccupate.

Quello che mi è sembrato di capire dal suo intervento è questo: se diciamo alle persone “siete pigre”, siete delle “teste di NEET” e “non c’è lavoro”, forse qualche scoraggiato lo creiamo, piuttosto che ridurlo. E io sono d’accordo. Non mi sembra tanto sensato dire a una persona che ritengo scoraggiata: “Fai bene a non avere coraggio! Meglio non rischiare”.

Senza parlare della sistematica sottovalutazione del fatto che in Italia esiste un problema geografico. Se il disoccupato è a Crotone e il lavoro a Monfalcone, non è tanto mismatch, quanto distanza geografica. Poi possiamo discutere che un disoccupato dovrebbe andare a vivere dove c’è lavoro, ma questo calpesterebbe un po’ di secoli di libertà individuali. Introdurre il lavoro forzato non credo sia la strada giusta.

Mancano tecnici della cybersecurity? Facciamolo fare alle casalinghe

Se apriamo un qualsiasi giornale economico, troveremo stime al rialzo, continue sui 2, 3 o 4 milioni di posti vacanti in Italia; il pianto di aziende che non trovano lavoratori, mentre l’ISTAT ne certifica circa 500.000. Qualcosa non torna.

Ed ecco lo scempio. Se diciamo “ci sono tante donne inattive”, e le aziende cercano milioni di professioni, a qualcuno viene subito l’idea nefasta: “Formiamo le donne inattive per le professioni che mancano”.

Semplice, no? Ed ecco i corsi di formazione in cybersecurity per casalinghe. Non che una casalinga non possa diventare esperta in cybersecurity, ma parliamoci chiaro, è credibile che questa sia una soluzione reale al problema? È sensato spendere soldi pubblici così? Questo se mai troveremo persone disponibili a salire a bordo di un progetto del genere (e de-genere).

Da inattivi a disoccupati: cominciamo da qui

La chiave è promuovere uno spostamento prossimo e graduale. Trasformare prima gli inattivi in disoccupati, attivamente in cerca di lavoro, può peggiorare temporaneamente le statistiche, ma rappresenta l’unica soluzione strutturale al problema. Nel frattempo, le aziende devono adottare una strategia più intelligente di sviluppo interno delle competenze: se manca un tecnico della cybersecurity, forse la soluzione non è cercare fuori, ma guardare prima dentro l’azienda. Formare internamente una persona che già lavora da anni, favorendone la progressione professionale, libera in automatico un posto più semplice da occupare per chi cerca un primo impiego, o vuole rientrare nel mercato dopo un lungo periodo di inattività.

Questa logica permette un ricambio continuo e sostenibile, in cui le competenze si sviluppano progressivamente, in una catena virtuosa e coerente con le capacità e le esigenze di tutti. Allo stesso tempo, l’imprenditorialità deve essere incentivata tra coloro che già hanno esperienza professionale consolidata; persone in grado di creare attività imprenditoriali realmente sostenibili e produttive. Basta con i finanziamenti per le startup a inattivi: diamoli alle donne manager, o a chi già lavora, o a chiunque abbia una buona idea, indipendentemente dalla sua condizione occupazionale.

Non cerchiamo sempre di prendere otto piccioni con una fava. Alle volte uno basta e avanza. Quando ci riusciamo.

Una nuova prospettiva, senza chiedere all’IA

Il vero cambiamento richiede una nuova prospettiva, accompagnata da interventi granulari e progressivi. Non abbiamo bisogno di salti quantici, ma di passi concreti e realistici, vicini alla vita quotidiana delle persone. Solo così potremo davvero incidere sull’occupazione femminile e ridurre stabilmente il numero degli inattivi.

Una preoccupazione personale, infine: nel mondo si sta diffondendo una nuova narrativa secondo cui l’intelligenza artificiale potrebbe sostituire molti posti di lavoro. Già immagino gli amministratori delegati che, davanti a richieste di nuove assunzioni, risponderanno: “Non possiamo sostituirlo con l’IA?”.

Attenzione però, perché dietro questa narrativa apparentemente moderna si nasconde il rischio di aggravare la situazione occupazionale. In questi casi, il mio consiglio è: forse è la scelta giusta. Dopotutto l’IA sa fare tantissime cose. C’è solo una cosa che non sa fare: consumare. O meglio, consuma un sacco di energia, ma i nostri prodotti mi sembra che non li consumi. Quindi, a meno che non produciamo energia elettrica, forse un pensierino dovremmo farlo, ad assumere un consumatore naturale, invece che un’intelligenza artificiale.

 

 

 

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Photo credits: secondowelfare.it

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